La mia amica Vale se ne va. Ancora non sa dove, ma se ne torna dall'altra parte del pond, forse nella sua amata Varvavia, forse altrove, ma la cosa importante e' che lascera' l'odiata Houston. Oggi ha scritto un bel post in cui rianalizza la sua permaneza qua e ammette di essere riuscita a trovare ben 10 lati positivi, ognuno dei quali appoggio in maniera incondizionata.
Tempo fa mi ha intervistata per Amiche di Fuso e abbiamo insieme messo a fuoco come ogni luogo di espatrio (come la gente nell'Oil&Gas adora chiamare questi periodi all'estero) non sia bello o brutto per se, ma dipenda molto dal momento della vita in cui ci si capita.
Questo mi ha fatto pensare che io, infondo, non ho mai scritto granche' della mia esperienza da expat, forse perche' "expat" non sono, ma sono emigrata.
Sei espatriata se pensi di rimpatriare. Altrimenti sei semplicemente andata via. A me nessuna compagnia mi sposta da un punto all'altro del globo pagandomi traslochi, affitti e scuole esclusive internazionali dei figli. Noi ci spostiamo per lavoro e il resto e' tutto un grande punto interrogativo.
Ma torniamo alle mie esperienze fuori Italia.
Tralasciando le prime due (Parigi e Dresda), una meta di Erasmus e quindi non qualificabile e la seconda troppo breve, arriviamo a Londra.
Londra e' una bellissima citta', non e' certo una novita' questa, ma per i primi anni io volevo solo stare a casa mia (Firenze) e quindi l'ho vissuta con amore/odio, vista come un posto transitorio, fino a quando non ho abbandonato l'idea di tornare a casa. In quel momento, ho iniziato a guardarla con occhi diversi, analizzandone in maniera oggettiva i pro e i contro (sia lavorativi che personali) che, sempre e comunque corroborati da una discreta dose di istinto, mi hanno portato a dire, dopo 7 anni: leviamoci dai coglioni. Questo posto non fa per me. Io voglio il sole, voglio andare a lavoro in bici in 10 minuti e voglio parlare con della gente che dica pane al pane e vino al vino.
L'America, da brava militante degli studenti di sinistra, mi e' sempre stata sulle palle. Houston, in particolare, mi faceva paura e mi incuriosiva allo stesso tempo. Pensavo di atterrare in una terra di cowboy e conservatorismo, sessismo, razzismo, classismo e tutte quelle cose li che si sentono dire del Texas quando in Texas non ci si e' mai messo piede. E sono vere, per carita', fuori dalle grandi citta', e anche dentro in certi ambienti, ma che io dopo due anni, ancora non ho toccato con mano. Cosi' come so che la gente gira con la pistola in macchina, probabilmente, ma io non ne ho vista nemmeno una.
Quando, il giorno dopo essere atterrata, ancora stordita dal fuso, incinta e stanca, sono andata al campus della Rice a fare due passi, ecco, quella sensazione dimenticata di sole che scalda la pelle, quel tepore e quel profumo di primavera, tutta quella gente che correva in maglietta, che andava in bicicletta o sullo skate, quello e' stato il mio imprinting americano.
E' stata la mia epifania, in cui ha messo a fuoco che ero proprio stanca e avevo bisogno di vivere al caldo, in un posto facile e senza dover correre come una trottola. Tutto il resto era secondario. E se non potevo andare a piedi in centro, potevo andare in bici dappertutto, con il sole.
E' stato anche il momento in cui ho capito che tutti i preconcetti che avevo, bigotteria, sessissimo, classismo, orrore all'idea della scuola e sanita' privata, cibo corrotto, consumismo sfrenato, tutte quelle idee li, che mi portavo dietro con il mio senso si superiorita' da figlia del vecchio mondo, ecco ero il caso che iniziassi a analizzarli in maniera critica.
La prima grande lezione mi e' arrivata al momento del parto, quando mi hanno detto che l'ospedale metodista dove Fabio e' nato non prendeva in considerazione niente di diverso da cosleeping e allattamento al seno - a meno che la madre non ne facesse esplicita richiesta. O non era la patria retrograda del conservatorismo?
La seconda e' stata quando ho segnato Fabio all'asilo e nessuno ha fatto una piega quando ho menzionato i pannolini lavabili e il BLW - o non era la patria del consumismo e basta?
La terza quando ho scoperto che la stragrande maggioranza dei colleghi e amici americani mandava o avrebbe mandato i figli alla scuola pubblica - o non era la patria dell'istruzione privata come alternativa all'analfabetismo?
Poi son venuti grandi dibattiti in laboratorio su sanita' e politica, che mi hanno sicuramento aiutato a vedere le cose sotto una luce diversa, molto diversa.
E anche se mantengo immutate alcune opinioni di stampo europeo che mi hanno fatto guadagnare il titolo di 'comunist' (IRONICAMENTE, ironicamente. Ironicamente e con affetto, non iniziate a impazzire con commenti da guerra fredda), guardo questa terra e le sue infinite contraddizioni con occhio piu' consapevole e attento.
E arriviamo a oggi, qui, in questa "caverna" che e' il mio laboratorio (non perche' tutti i laboratori del paese siano sottoterra, ma perche' nel mio ci si lavora con le radiazioni e quindi assomiglia a un bunker), unico momento in cui scrivo sul blog con un po' di calma mentre faccio anche altro (di solito HPLC).
Oggi, passato il secondo anniversario da quella passeggiata alla Rice, posso tranquillamente ammettere che mi viene l'orticaria quando sento dire "questi americani fanno questo" o "qui in America si fa cosi'" o "mai in America vedrai questa cosa" perche' significa che davvero con "questi americani" del 2016 a stento ci si e' parlato. Perche' se ci si fosse parlato, discusso o anche litigato, ci si renderebbe conto che "America" non significa nulla.
Ciao! Anche io sono espatriata da poco in Texas, ma ad Austin, che si sa, è un po' weird ;)
ReplyDeletePer ora sono ancora nel limbo, quindi non mi esprimo in commenti, ma in generale l'impressione è positiva
Austin dovrebbe essere anche meglio di Houston, nel senso europeo del termine. Sono sicura che andra' tutto benone!
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